Il Coaching secondo John Whitmore

Il Coaching secondo John Whitmore
Il Coaching secondo John Whitmore

Cos’è il coaching e a che serve? Possiamo rispondere a queste domande sulla base del libro di John Whitmore, che è stato uno dei fondatori della disciplina.

Definizioni del coaching

Secondo Whitmore fare coaching significa ‘Supportare le persone perché facciano crescere se stesse e le proprie performance, chiariscano l loro scopo e la loro vision, raggiungano i propri obiettivi e realizzino il proprio potenziale.’ (Appendice 1 di Whitmore J. (2017, trad. it. 2018) Coaching: Come risvegliare il potenziale umano nella vita professionale e personale. D’ora in poi tutti i riferimenti sono al libro di Whitmore). Più sintetica la definizione della International Coaching Federation: aiutare i clienti a ‘(..) massimizzare il loro potenziale professionale personale’ (Appendice 1).

Lasciando a parte il gergo tecnico e quello pubblicitario, lo scopo originario del coaching è migliorare le prestazioni. Successivamente l’approccio del coaching è stato utilizzato anche per problemi diversi, ad esempio facilitare scelte professionali.

Whitmore sviluppa il coaching in ambito aziendale, con manager e quadri. L’azione di coaching può essere svolta da consulenti esterni o, meglio, dagli stessi manager formati alle tecniche del coaching.

La filosofia del coaching

Il coaching insegna alle persone ad apprendere

Gli obiettivi del coaching vengono raggiunti secondo Whitmore ‘attraverso un approccio che insegna alle persone ad apprendere, invitandole ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, a riflettere sui risultati delle loro azioni, ad adottare nuovi comportamenti o atteggiamenti se quelli iniziali non danno risultati.’ Whilmore a un certo punto cita il metodo maieutico di Socrate (cap.1).

‘Un coach non è un risolutore di problemi, un consulente, un insegnante, un consigliere o un istruttore, e nemmeno un esperto: un coach è una persona con cui far emergere le idee, un facilitatore, un elevatore della coscienza e un sostenitore’ (cap.6).

Secondo Whitmore il coach non deve essere esperto nella materia trattata e questo sarebbe un suo grande punto di forza (cap 1).

Differenze fra coaching e mentoring

Whitmore differenzia il coaching dal mentoring: nel mentoring una persona esperta trasmette a un’altra le proprie conoscenze (cap.1). La condivisione di conoscenze e esperienze avviene anche nel coaching, ma non sempre; la trasmissione continua di conoscenze e esperienze rischia di minare la fiducia in sé stessi del coachee (cap.1).

Il coaching aiuta a superare i propri blocchi interiori

Whitmore cita Timothy Gallwey. (cap.1). Gallwey era un coach di tennisti, e nel suo libro Il gioco interiore del tennis sostiene che la performance migliora se il tennista gioca silenziando la mente razionale.

Parlando di Gallwey, Whitmore afferma che ‘un coach è in grado di aiutare un giocatore a rimuovere o ridurre gli ostacoli interiori’ e questo porterà ‘un’inaspettata abilità naturale sia nell’apprendimento che nella pratica dello sport, senza bisogno di chissà quali input tecnici da parte del coach’ (cap.1).

Una delle strategie del coach sportivo è migliorare la coscienza delle percezioni corporee durante l’attività sportiva (cap.6); nel coaching non sportivo l’obiettivo è invece sviluppare coscienza mentale e interpersonale e creare fiducia in se stessi (cap.6).

Il coaching di Whitmore è nato adattando questo approccio all’ambiente di lavoro (cap.1).

Le basi teoriche del coaching

Secondo Whitmore, Gallwey ha basato il suo approccio su altri autori, quali ad esempio Maslow (cap.1).

Maslow ‘studiò persone mature, complete, di successo e realizzate, e concluse che a tutti noi sarebbe possibile essere così. Affermò anzi che proprio questo è lo stato naturale dell’essere umano. Tutto quello che dovremo fare per raggiungerlo, a suo parere, è superare i blocchi interiori, che ci impediscono di svilupparci e maturare’ (cap.1).

Il blocco interiore a cui Whitmore si riferisce è la paura del fallimento, una scarsa fiducia in sé stessi (cap.5). L’espressione del potenziale può essere limitata anche da blocchi esterni quali ad esempio lo stile di management del supervisore (cap.5).

Le domande mirate del coaching

Le prestazioni aumentano anche grazie al miglioramento della conoscenza di sé e del contesto circostante (in molti sport grazie alla consapevolezza sulle proprie percezioni corporee) e alla possibilità di ricevere feedback non giudicanti (cap.6).

La conoscenza di sé e del contesto migliorano grazie alle domande mirate del coach (cap.7).

Le domande efficaci sono quelle aperte (a cui cioè non è possibile rispondere semplicemente sì o no) (cap.7).

In un esempio nel cap.4, Whitmore mostra come esempio di coaching il dialogo una dipendente e il suo supervisore.

La dipendente dice al supervisore che l’azione che avevano concordato non ha funzionato. Il supervisore allora, invece di dire alla dipendente cosa fare, invita la dipendente a individuare altre attività alternative da mettere in pratica.

Il giorno dopo la dipendente racconta al supervisore che il problema non è stato risolto, ma ha individuato di che si tratta. Il supervisore si complimenta con la dipendente e le chiede cosa ha intenzione di fare.

La dipendente chiede al supervisore di intervenire su un altro dipendente, ma il supervisore le dice di farlo lei direttamente, mostrandosi fiducioso sulle sue capacità di ottenere un risultato positivo anche senza il suo intervento.

Nell’incontro successivo la dipendente dice al supervisore che è andato tutto bene. Il supervisore le fa i complimenti e le chiede cosa ha imparato da questa esperienza.

Che cosa fa il coach

Dunque da questa interazione vediamo che il coach:

  • ha fiducia nella capacità del dipendente (la persona che ‘riceve’ il coaching è chiamata coachee o cliente) di risolvere il problema in maniera autonoma
  • in alcuni casi invita il coachee a trovare soluzioni invece di dirgli sempre cosa fare
  • aiuta il coachee ad attivarsi
  • monitora i risultati delle attività programmate
  • si complimenta col coachee quando fa qualcosa bene, in maniera da aumentare il suo senso di autoefficacia
  • imposta la relazione col coachee come una relazione di apprendimento continuo.
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Il modello GROW per lo svolgimento delle attività di coaching

Whitmore presenta un modello a 4 fasi per lo svolgimento delle attività di coaching (cap.9).

  1. OBIETTIVO (Goal): coach e cliente stabiliscono l’obiettivo del coaching e di ogni sessione
  2. REALTA’ (Reality): viene approfondita la situazione attuale in cui si trova il cliente, inclusi i risultati delle azioni fatte in precedenza e i possibili blocchi interiori e esterni
  3. OPZIONI (Options): vengono messe a fuoco le possibili alternative d’azione
  4. AZIONE (Will) Viene deciso esattamente quale alternativa seguire, come e quando.

Qui di seguito riporto esempi di domande che è possibile usare nelle varie fasi (Appendice 2).

Fase 1. OBIETTIVO

  • Cosa vorresti ottenere dal tempo che trascorreremo assieme?
  • Quale sarebbe per te la cosa più utile come risultato della sessione?
  • Mi sembra che tu abbia 2 obiettivi su quale potresti concentrarti per primo?

Fase 2. REALTA’

  • Che cosa sta accadendo al momento?
  • Su una scala da 1 a 10, sei una situazione ideale è 10, qual è il voto della situazione attuale?
  • Cosa provi a riguardo?
  • Che impatto sta venendo la cosa su di te?
  • Che peso di porti sulle spalle?
  • Quanto ……….?
  • Quali azioni hai già compiuto fino a questo punto?
  • Cosa ti ha impedito di fare di più?
  • Che resistenze hai rispetto al passare all’azione?

Fase 3. OPZIONI

  • Cosa potresti fare?
  • C’è dell’altro?
  • Ti potrebbe aiutarti?
  • Dove potresti trovare informazioni?
  • Come potresti farlo?
  • Che opzioni hai?

Fase 4. AZIONE

  • Quali opzioni scegli?
  • Cosa farai?
  • Con chi parlerai?
  • Quando lo farai?
  • Dove andrai?
  • Come misurerai il successo?
  • Qual è il primo passo?
  • Cosa ti impedisce di cominciare prima?
  • Quanto ti senti disposto ad impegnarti in questa azione, su una scala da 1 a 10?
  • Come saprai che ha funzionato?

Una valutazione del libro

La parte dedicata al modello GROW è ben dettagliata, ma la gran parte del libro è dedicata a concetti generali e ispirati (l’importanza della tutela ambientale, la necessità di un nuovo clima in azienda basato sulla fiducia, etc.), oppure che rispondo a logiche promozionali (ad esempio il coaching per la sicurezza).

Il libro inoltre è alla quinta edizione e risente del fatto di essere stato ogni volta rimaneggiato senza una buona integrazione. Nel capitolo 17 viene addirittura presentato un modello alternativo di processo, basato sul ciclo PDCA.

Da un punto di vista più generale, le indicazioni operative di Whitmore corrispondono in gran parte a quelle che seguo come consulente di orientamento e come formatore di operatori di orientamento, in particolare corrispondono alla pratica della consulenza di orientamento svolta con finalità educative (tecnicamente si chiama orientamento formativo).

Non condivido la convinzione di Whitmore che chi è in grado di gestire il processo di coaching (sappia cioè attuare la metodologia GROW, PDCA o sistemi simili) possa intervenire nei contesti più diversi senza una conoscenza approfondita del contesto specifico di intervento. Questo approccio, nella mia esperienza, può apportare danni al cliente. Vedi alcuni esempi.

Mi colpisce anche negativamente che un libro dedicato al coaching in azienda fornisca pochissimi strumenti per l’analisi del contesto aziendale, degli stili di leadership, delle mansioni. Nel libro di Whitmore manca tutta la psicologia del lavoro. Quello di Whitmore sembra caratterizzarsi come un intervento aspecifico e decontestualizzato.

Se desideri migliorare la tua attività di career coach o di consulente di orientamento puoi seguire uno dei miei corsi.

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993. L’articolo rispecchia le opinioni dell’autore al momento dell’ultima modifica. Leggi Informativa privacy, cookie policy e copyright.

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