Il declino economico dell’Italia

Questo articolo fa parte di una serie che ha lo scopo di descrivere l’attuale situazione economica e sociale dell’Italia. Una conoscenza precisa e aggiornata del ‘contesto’ è un elemento importante per svolgere bene attività di orientamento.

Questo articolo in particolare riporta una sintesi del saggio di Greco P., Termini S. (2007). Contro il declino. Una (modesta) proposta per un rilancio della competitività economica e dello s viluppo culturale dell’Italia. Codice Edizioni.

In estrema sintesi dai primi anni ’90 l’Italia si è avviata in un periodo di declino economico dovuto alle difficoltà competitive dei suoi prodotti tradizionali, prodotti in cui la componente tecnologica è ridotta e l’incidenza del costo di manodopera elevato. Le tradizionali strategie di recupero della competitività basate sulla compressione dei salari e la svalutazione della lira che hanno permesso lo sviluppo italiano a partire dagli anni ’50 sono controproducenti o non più attuabili, per cui è necessario sviluppare la produzione e il commercio di beni ad alta componente tecnologica. Questo è possibile solo con un impegno consapevole e diretto di governo e parti sociali e con una serie di misure descritte dal saggio.

In maggior dettaglio

Ci sono vari indicatori che mostrano una situazione di declino dell’Italia a partire dall’inizio degli anni ’90. In particolare (fra parentesi i riferimenti al libro):

  • 1. Il Prodotto Interno Lordo (un indicatore globale della ricchezza prodotta da ogni nazione) cresce meno di quello europeo (6-8). Gli italiani cioè stanno diventando relativamente più poveri (o meno ricchi) degli altri Paesi (8-9)
  • 2. In Italia la percentuale delle persone al lavoro nella fascia di età fra 15 e i 65 anni è più bassa della media europea. Tale differenza è cresciuta in tutti gli anni ’90 fino ad arrivare a -10% nel 2002 (9-11)
  • 3. La produttività media dell’Italia, cioè la ricchezza prodotta da ogni lavoratore (uno degli indicatori della competitività di un Paese) dal 2006 è sotto la media europea e (unico caso in Europa, con l’eccezione del Lussemburgo) è addirittura calata in termini assoluti (11-12)
  • 4. Gli stipendi dei lavoratori italiani sono più bassi del 10-15% rispetto alla media dei Paesi europei più sviluppati e la differenza dal 1997 in poi è andata costantemente aumentando (14-15)
  • 5. L’Italia ha una scarsa capacità di attrarre capitali stranieri (15-16)
  • 6. Il debito pubblico italiano è superiore alla media dei Paesi europei, anche se nel 2007 la differenza si è ridotta (16-17)
  • 7. In Italia la distanza di reddito fra ricchi e poveri è andata aumentando fino a diventare più ampia che in tutti gli altri Paesi europei (con l’eccezione del Portogallo).

Dal 1950 al 1990 l’Italia ha conosciuto un periodo di forte sviluppo economico, reso possibile soprattutto dai bassi salari e dalle frequenti svalutazioni della lira (19-20). Il declino dall’inizio degli anni ’90 è dovuto all’accresciuta concorrenza di Paesi con costi salariali più bassi e alla stabilizzazione della lira seguita poi dall’introduzione dell’euro (nota 1: Secondo la maggioranza degli economisti l’adesione dell’Italia all’euro era comunque necessaria per evitare instabilità finanziarie dovute al rilevante debito pubblico italiano dei primi anni ‘90) (19-21).

Dall’inizio degli anni ’90 la quota italiana del commercio internazionale è progressivamente diminuita e dal 2004 le importazioni italiane superano le esportazioni (22-23). Le difficoltà si sono manifestate soprattutto nei beni ad alta tecnologia (dal 1990 al 2003 la quota italiana del commercio internazionale è diminuita del 40%, mentre solo del 15% per i beni a bassa e media tecnologia) (23-27).

Due delle principali caratteristiche del commercio internazionale sono:

  • il grande aumento degli scambi fra i vari Paesi, fra i quali Cina, india e altri a basso costo di manodopera. Questo è uno dei principali aspetti della cosiddetta globalizzazione, dovuto anche alla delocalizzazione della produzione ad opera di imprese multinazionali.
  • l’importanza crescente dei beni ad alta tecnologia. ‘La novità della nostra era (‘era della conoscenza’) risiede nel fatto che la produzione di nuova conoscenza e di quel tipo di tecnologie ‘che incorporano volumi senza fine crescenti di conoscenza scientifica’ sono diventati i fattori primari ‘dell’innovazione, della crescita economica, della competitività internazionale’ (Gallino, 2007). In altri termini nell’economia dell’informazione e della conoscenza la produzione di beni che hanno maggior successo di mercato è sempre meno caratterizzata da un’alta intensità di lavoro e sempre più da un’alta intensità di conoscenza.’ (34). L’alta tecnologia costituisce il 30% della produzione USA, oltre il 20% della produzione dei Paesi emergenti dell’Asia, quasi il 18% in Cina, 15% in Giappone, 12% in Europa. (34). L’Italia è tradizionalmente specializzata su prodotti a media e bassa intensità di conoscenza aggiunta (50), ma gli indicatori riportati all’inizio dell’articolo mostrano come questo modello, per i motivi spiegati sopra, è in difficoltà.

La produzione di beni ad alta tecnologia è resa possibile dall’investimento pubblico e privato di ciascun Paese in ricerca scientifica e alta formazione che diventano così tra i fattori determinanti della competitività di ciascun Paese (51). La spesa in ricerca in termini assoluti vede ai primi posti USA, Cina, Giappone, Germania; l’Italia è dodicesima (47). La spesa in ricerca e formazione in percentuale del Prodotto interno lordo vede ai primi posti Svezia, USA, Corea, Giappone e l’Italia al 9’ posto (50). Dai non esaltanti. In Italia negli ultimi 10 anni il numero dei ricercatori è addirittura diminuito (-5000) (54). La qualità media dei 70.232 (nel 2003) ricercatori italiani, misurata in termini di pubblicazioni e brevetti, è buona (58-60). ‘Possiamo dire che i nostri ricercatori sono pochi, producono tanto e i loro prodotti sono di qualità media.’ (59). Al contrario le classifiche sulla qualità delle università nel mondo vedono quelle italiane arretrate (in uno studio cinese la prima classificata, la Sapienza di Roma, è solo al 100’ posto) anche se ci sono due scuole d’eccellenza, la Sissa di Trieste e la Normale di Pisa (17’ e 24’). Uno dei principali problemi in Italia è il basso investimento delle imprese in ricerca, pari al 47% della media europea, al 35% delle imprese OCSE, al 28% di quelle USA e al 23% di quelle giapponesi (63). Peraltro gli investimenti delle imprese italiane sono finanziati per il 25% dallo Stato, contro il 10% della media europea.

Il libro propone una serie di misure per invertire il trend negativo dell’Italia:

  • maggiori investimenti nel settore pubblico della ricerca (116)
  • maggiori investimenti a favore dell’alta formazione
  • concentrare parte della ricerca in una rosa ristretta di settori (esempio: energia)
  • favorire gli investimenti in ricerca da parte delle imprese attraverso facilitazioni fiscali (155) e la collaborazione delle imprese con le università (157)

 

Articolo contenuto sul sito www.orientamento.it. Autore Leonardo Evangelista. Leonardo Evangelista si occupa di orientamento dal 1993. L’articolo rispecchia le opinioni dell’autore al momento dell’ultima modifica. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.

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